Ed in effetti il caso svedese è uno dei pochi, secondo recenti ricerche, nei quali alla contrazione derivante dall’austerità ha fatto seguito un’espansione economica.Quelle ricerche ci dicono anche che la performance svedese è stata resa possibile da tre condizioni: il Paese disponeva di una moneta propria che ha potuto svalutare per favorire le esportazioni; aveva una struttura produttiva in grado di usufruire rapidamente del vantaggio della svalutazione; l’economia mondiale era in decisa crescita ed ha favorito il rilancio delle esportazioni. Di quelle condizioni l’Italia ne soddisfa solo una: una industria manifatturiera capace di esportare, ma non ha una moneta da svalutare per guadagnare competitività.
Quanto all’economia mondiale qui sta succedendo il contrario: allora la ripresa di un piccolo Paese come la Svezia fu trainata dalla crescita dell’economia mondiale, ora la tendenza recessiva dell’Unione europea sta attirando l’intera economia mondiale in una fase di rallentamento. Il governo Usa sta reagendo mantenendo ancora abbastanza elevata la domanda pubblica, quello cinese con un nuovo piano di rilancio della spesa pubblica in infrastrutture, mentre in Europa Paesi con attivi di bilancia dei pagamenti relativamente più alti di quello della Cina, Germania ed Olanda, seguono anch’essi politiche di austerità: nessuna meraviglia che l’Europa vada male. D’altro canto è impossibile separare le previsioni per l’Italia da quelle per altri Paesi europei, tipo Grecia o Spagna, e questo anche Moody’s e Fitch dovrebbero saperlo. Quanto a Fitch il problema principale sarebbe il dopo Monti e il rischio che si rompa la continuità. Manca solo che ci dica quale maggioranza e quale governo formare dopo le elezioni.Ma, leggendo tra le righe, si può trarre qualche indicazione. Nei giorni scorsi, mentre infuriava la polemica fra Draghi e la Bundesbank, alcuni giornali ci hanno spiegato come Draghi stia preparando una «road map» che, partendo dalla soluzione del problema degli spread e passando per l’unificazione bancaria e poi per l’unificazione fiscale, dovrebbe approdare all’unità politica dell’Europa. E questa veniva considerata una buona notizia. Ora, a parte la veridicità di quella notizia ed il fatto che su ciascuno dei passaggi esistono visioni diverse e contrapposte, è singolare che si ritenga normale che a tracciare la via per l’unità politica dell’Unione sia la Bce e non forze politiche, parlamenti nazionali e parlamento europeo. È bene ricordare che la delega alle banche centrali dell’intera politica macroeconomica fu un corollario del pensiero unico e che «regolare sistemi finanziari guidati dai mercati» ha cambiato sostanzialmente il ruolo delle banche centrali, come avevano sostenuto già nel 1994 Padoa-Schioppa e Saccomanni. Esse, ce lo dice l’esperienza successiva, hanno una responsabilità primaria nello scoppio della crisi e non solo la Fed di Greenspan, che ad intermittenza ora fa autocritica, ma anche la Bce che ha assistito impassibile al formarsi nell’area euro di enormi squilibri destinati inevitabilmente a minare la stabilità dei mercati finanziari.
Il paradosso è che adesso, anziché assistere ad una riappropriazione del proprio ruolo da parte della politica, assistiamo alla tendenza di banche centrali ed agenzie di rating di intervenire nelle decisioni politiche. Il principale problema della agenzie di rating, e non solo, è che continuano a leggere la realtà con gli occhi del pensiero unico, quelli che ci hanno guidato verso la crisi. Pensare poi di affidare ad organismi tecnici un ruolo di supplenza dell’incapacità della politica di offrire una visione concordata della nuova Europa tale da mobilitare il consenso degli elettori potrebbe confermare l’opinione dei critici che vedono nell’Unione europea una struttura sostanzialmente tecnocratica e, soprattutto, potrebbe rivelarsi una grande illusione.Fonte
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