“La grande bellezza”: un orgoglio italiano

Marzo 3, 2014
“La grande bellezza”: un orgoglio italiano

oscar

Ripubblico le recensioni fatte a suo tempo, nella rubrica “Cinema e libri”, di “La grande bellezza” e “Blue Jasmine” (Oscar a Cate Blanchett). Grande Sorrentino e grande Toni Servillo, Oscar strameritato.

“La Grande Bellezza” (*****) – Recensione del 9 Giugno 2013
Ci sono film (pochi) che valgono molto piu’ del prezzo del biglietto e che meriterebbero, per essere apprezzati, di essere visti piu’ di una volta, un po’ come una grande bottiglia merita di essere stappata ore prima di essere bevuta: “La grande bellezza” è uno di questi.
La trama del film – le peregrinazioni romane e gli incontri di Jep Gambardella, un Toni Servillo che si conferma attore di livello assoluto - è semplice pretesto. Roma diventa l’unica cornice plausibile per toccare temi e modelli che vanno oltre: la non corruttibilità del bello in quanto tale, sia esso creato dalla Natura o dall’Uomo, anche di fronte all’incredibile volgarità cui giungono i comportamenti umani. Ma anche il tempo: e  come esso modifichi la percezione dei valori e delle cose. ”La grande bellezza” è un film intenso, con momenti toccanti e con un preciso e deliberato crescendo dall’esteriorità (la festa di compleanno sulla terrazza) all’interiorità. Gambardella, un cinico esteta che ama circondarsi di figure vuote per non essere costretto a guardarsi dentro, si trova a fare i conti con la sua vita e col suo passato. Vive intrappolato in una Roma splendida, come una mosca sotto un bicchiere di cristallo, in un attico con vista da un lato sul Colosseo e dall’altro su un convento, ha uno strano vicino di casa e ha scritto un solo libro – da giovane. A 65 anni è esattamente quello che voleva essere: il magister elegantiarum delle notti del jet set romano, il che vuole dire, in fondo, re di tutto o del nulla. Paolo Sorrentino è un regista bravissimo, giustamente consapevole dei suoi mezzi: finora non ha sbagliato un colpo. Dopo un film storico-allegorico come “Il Divo” e un road-movie come ”This Must Be the Place” (ma anche un precedente, imperdibile film minimalista come “Le conseguenze dell’amore”), si confronta con modelli elevati: inevitabile pensare a Fellini e a Terrence Malick, ma sempre con un tocco del tutto personale. Sceneggiatura perfetta e interpreti – anche minori – eccellenti: su tutti Verdone nei panni di un illuso e idealista sessantenne, con un rigurgito finale di realismo e di orgoglio, e Sabrina Ferilli, veramente bravissima. Ma tutti i personaggi sono archetipi di un certo mondo, tristemente centrati e messi a fuoco con una vena quasi impressionistica. Gran bel film, adulto, denso, facile solo all’apparenza: imperdibile.

Blue Jasmine (*****) – Recensione del 21 Dicembre 2013
Interrompendo finalmente l’alternanza di risultati degli ultimi film, Woody il Grande si e ci regala un capolavoro sul livello di “Match Point” e forse oltre. Allen ha sempre trattato psicodrammi e crisi d’ansia a diversi livelli, regalandoci magistrali esempi di isteria d’ogni sorta: ma il tracollo nervoso, emotivo, esistenziale di Jasmine French è un qualcosa di così potente e drammatico da risultare unico nel suo genere. La storia è quella di una ricca e viziata young lady di Manhattan che, a causa della mala fine del marito novello Madoff e (lo scoprirà dopo) pure fedifrago, si ritrova senza un soldo e a dover elemosinare un tetto dalla sorella, volgarotta e di modeste finanze, che abita a San Francisco. Il film inizia con i toni leggeri della classica commedia alleniana, ma in pochi minuti comincia a mostrare una durezza insolita, l’atmosfera diventa ambigua e tesa, e le tipiche battute al vetriolo lasciano in bocca un sapore molto più amaro di quanto ci si aspetterebbe. Allen lascia il suo adorato iperuranio intellettuale per affondare le unghie nella realtà, nel mondo attuale, dove le situazioni e i cliché classici del suo cinema hanno un suono diverso, più aspro, dove le frecciate feriscono e la depressione non è più un vezzo, ma una prigione. Jasmine è una figura reale spogliata di ogni idealizzazione, portata all’esaurimento dal vuoto che la circonda e che ha dentro, specchio di una contemporaneità dove l’egoismo deresponsabilizzato (nell’amore, nel lavoro, nella percezione del bene e del male) è l’unica forma rimasta di pensiero e relazione. È una donna al capolinea che vive il suo tracollo come un flusso di coscienza dove passato e presente sono un continuum inestricabile che non le permette via di scampo, un personaggio straordinariamente potente e incisivo che Cate Blanchett incarna in maniera sublime. Si rimane sopraffatti da questa atmosfera che è al contempo familiare e straniante, tanto che anche gli straordinari brani jazz che da sempre rendono l’aria dei suoi film così unica e surreale, qui sembrano farsi beffe di quel che accade e accentuano per contrasto i toni drammaticamente grotteschi della vicenda. Blue Moon, la canzone di quando lei e il marito si sono incontrati, Jasmine la cerca di giorno in giorno nella sua memoria, come la sua vecchia confortante vita, ma non riesce più a ricordare nemmeno una parola. E quando in un film di Woody Allen anche il jazz è incapace di portare speranza, vuol dire davvero che la faccenda è seria. Grande film, terminale: assolutamente da vedere.

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